02/11/2021 -
Fabio Fiori
Lettera #1
Cipro? un circo! nell'accezione ottocentesca del termine, quando sotto il tendone (con arie spesso torride come per altro quelle cipriote d'agosto) si mostravano meraviglie e mostruosità.
O almeno un circo è sembrato a un improbabile equilibrista su due ruote o, sarebbe più giusto dire, a un donchisciottesco curioso a pedali, cioè chi scrive. Partito nella stagione peggiore per la bicicletta, per clima e traffico, il mese d'agosto. Ma dopo aver rinunciato al viaggio per due primavere successive causa Covid, irrefrenabile era il desiderio di eplorare l'isola di Afrodite. Caduto maldestramente dopo pochi giorni, probabilmente sull'unica strisciolina d'acqua sulle strade dell'isola, in curva e in discesa. Ma non ho desistito, sono risalito subito in sella tutte le mattine con le prime luci dell'alba. Ho pedalato tutta l'isola, le coste occidentali greche e orientali turche, scalando lentamente, con gran fatica e sudore, le montagne centrali di Troodos e quelle nordorientali di Karpasia. Solitario e stordito dal caldo e dalla fatica come un vecchio circense, ancor più smarrito perchè purtroppo non conosco le lingue di chi ho incontrato lungo la strada, nei kafeni greci, nelle mehyane turche.
Quindi l'isola non posso dire di conoscerla, ma l'ho vista dalla strada percorrendo mille chilometri, l'ho osservata, ascoltata e annusata. Di certo posso dirvi: dimenticate i pazienti asini di Thubron, gli amari limoni di Durrell, le strane navi di Donizzetti! Sulle strade di Cipro d'agosto scorrazzano suv di ogni tipo, ma ancor peggio sono i quad che sfrecciano anche sui sentieri costieri più remoti, alzando nuvole di polvere tossiche per cammiantori o pedalatori inermi. Così come in mare sfrecciano le moto d'acqua e anche nelle baie più lontane può arrivare un motoscafone con musica a tutto volume. Ma non tutto è perduto, è solo più difficile da vedere e da sentire, con orecchie, naso, pelle e bocca. Perché vi assicuro che ho visto un'afrodite nera uscire dalle acque, quando la prima luce del mattino illumina gli scogli di Petra tou Rumiou. Ho ascoltato languide canzoni cipriote in una notte ventosa a due passi dal muro della Linea Verde di Lefkosia. Ho sentito i profumi resinosi di Artemide nei boschi del Monte Olimpo. Ho goduto dell'abbraccio dell'Egeo nelle acque turchesi di Capo Akamas. Ho assaporato meze levantini in una mehyane a Famagosta, in un crepuscolo dorato che incendiava le antiche mura veneziane.
Così ho raccolto queste cartoline da Cipro, attraenti alcune, respingenti altre, per provare a restituire immagini e atmosfere reali, complesse e contraddittorie, comunque vivissime. Quelle di un'isola che era e rimane un crocevia intricato e seducente. Un frammento d'Europa in terra d'Asia, circondato da acque e storie mediterranee.
Fabio Fiori
ps
Chi voglia esplorare culturalmente Cipro, troverà “pazienti asini” nel libro “Journey into Cyprus ” di Colin Thubron del 1975. Gli “amari limoni” sono anche nel titolo del libro “Bitter Lemons ” di Lawrence Durrell del 1957. Infine “strane navi” sono nell'opera “Caterina Cornaro” di Gaetano Donizzetti portata per la prima volta in scena nel 1844. Due libri di viaggio e una tragedia lirica che vi porteranno indietro nel tempo, in una Cipro che era un mosaico di villaggi greci e turchi intrecciati, riprendendo le parole di Colin Thubron che la attraversò a piedi nel 1972.
Lettera #2
“Che ci faccio qui?”, si chiedeva Bruce Chatwin disteso su un letto d'ospedale del National Health Service. Aveva brividi e febbri; pregava e sperava fossero i sintomi della malaria. Era il 1988, di ritorno da un viaggio in Ghana, sul set di “Cobra Verde”. Un film dell'amico e regista tedesco Werner Herzog, tratto dal libro di Chatwin “Il viceré di Ouidah”.
“Che ci faccio qui, in bici?”, mi chiedevo invece io disteso su un lettino del pronto soccorso di Polis, costa nord di Cipro nell'agosto scorso. Zigomo destro tagliato e sanguinante, spalla destra sempre più dolorante, mentre continuava a ingrossarsi l'ematoma interno; irrilevanti i graffi alle ginocchia e alle mani. Ero caduto due ore prima sul primo tratto asfaltato della strada che va da Capo Akamas a Polis, scivolando forse sull'unico micro rigagnolo d'acqua dell'isola, desertificata dal sole d'agosto. Non più largo di dieci centimetri, ma esattamente di traverso alla fine di una breve discesa, in curva! Rigagnolo maledetto, che non ho fatto in tempo a vedere, perché davanti a me c'era un auto. “Gli dei sono presenti ovunque accada qualcosa di decisivo, che lo si compia o lo si subisca”, mi ripetevo seduto sul gradino di un baretto, mentre due figure celesti mi aiutavano a pulirmi la faccia dal sangue e a tamponare la profonda ferita allo zigomo.
Irresponsabile, forse, il mio rifiuto di chiamare l'ambulanza per portarmi al pronto soccorso, che ho invece raggiunto da solo in bici, a cinque chilometri. Così come irresponsabile è stato il secondo rifiuto, di un ricovero per rimanere in ospedale in osservazione, a causa dei traumi. Dopo essere stato ricucito, ho brevemente e malamente discusso in inglese con la gentile dottoressa cipriota, firmando la mia dimissione ospedaliera. Per inciso, per visita e medicazione non ho pagato nulla … viva l'Europa! Era solo il terzo giorno di un viaggio che avevo fantasticato e pianificato per anni. Perciò il dolore passava in secondo piano, rispetto alla preoccupazione di dover rinunciare all'esplorazione a pedali dell'isola.
Così tatuato a sangue dalla strada, praticamente insonne per il bailamme notturno del campeggio dove mi ero attendato, il giorno dopo sono risalito in sella e sono ripartito, direzione nordest, confine turco-cipriota. Negli auricolari una vecchia canzoncina di Bobo Rondelli. “Pa pa pa pa pa pa... / Ho picchiato la testa, lasciatemi stare / Non lo vedete? Non son più normale”, lasciatemi pedalare! parafrasavo io canticchiando. Una pedalatina, … si fa per dire considerando la mia situazione ..., di una cinquantina di chilometri con circa settecento metri di dislivello. Senza dimenticare che già alle otto del mattino il termometro era salito sopra i 30° C.
Chissà cosa avrà pensato l'inappuntabile giovane poliziotto turco quando ha dovuto respingere alla frontiera il malconcio vecchio ciclista italiano, cioè il sottoscritto, che tentava invano di impietosirlo. Avrei voluto attraversare la frontiera con la Repubblica Turca di Cipro del Nord a Kato Pyrgos, evitandomi in quelle condizioni l'ascesa al Monte Olimpo per raggiungere i varchi di confine della capitale Nicosia. Ma il poliziotto è stato gentile e inflessibile: “This is the law!”. E la legge non permetteva agli europei l'attraversamento nei posti di frontiera minori, causa Covid-19 mi ha detto, neanche se in possesso del Green Pass che i turchi non riconoscevano, né dell'obbligatorio esito negativo del tampone.
Così sconsolato e molto preoccupato ho fatto dietrofront, per scalare le terribili e bellissime salite dei Monti Troodos, raggiungendo in due tappe la vetta a 1.952 metri. Sono poi sceso verso la capitale, nella sua parte greco-cipriota. Nicosia per noi, Lefkosia per i ciprioti. Città antichissima, ancora fortemente veneziana nell'impianto urbanistico interno alle possenti mura difensive. Città turca nei secoli successivi, poi inglese, finalmente indipendente nel 1960. Città ferita e divisa, da un muro alzato nel 1964, da una “Green Line” (nome che oggi appare ancor di più come una tragica beffa degli dei, perché del green nell'accezione odierna non ha niente, ma si ricollega solo al colore della penna con cui un generale inglese la disegnò per la prima volta su una mappa, a seguito dei violenti scontri tra greco-ciprioti e turco-ciprioti) che negli anni successivi dalla capitale si è estesa a tutta l'isola. Perché nel 1974 la “Green Line” o più precisamente la “United Nations Buffer Zone in Cyprus” ha di fatto diviso l'isola in due stati: Repubblica di Cipro e Repubblica Turca di Cipro del Nord, riconosciuta solo dalla Turchia.
Capitale torrida, con punte 100° Fahrenheit, corrispondenti a 38° C, comunque brulicante di vita sia a sud, dove sventolano bandiere bianco-azzurre, che a nord, dove invece garriscono quelle rosse con la mezzaluna bianca, oltre a quelle delle due repubbliche cipriote. Tre giorni sufficienti a farsi una prima idea della città, sui due lati del muro, facilmente superabile, con certificato negativo del tampone Covid-19, nei due varchi, quello pedonale della centralissima Ledra Street e quello anche automobilistico e storico del Ledra Palace Hotel.
Fabio Fiori
PS
Bruce Chatwin non credo sia mai stato a Cipro, ma uno dei suoi autori preferiti, Robert Byron, dedica poche ma intense pagine all'isola. Era il 29 agosto 1933 quando sulla via per Oxyana, riprendendo il titolo del suo libro, fece tappa per qualche giorno a Cipro, proveniente in nave da Venezia. “Su quest'isola la storia è quasi sovrabbondante, tanto da procurare una specie di indigestione mentale”. Vi assicuro che è la stessa impressione mia che sull'isola sono arrivato in aereo, con bici al seguito, nell'estate scorsa. Per provare invece a capire la relazione degli antichi con Afrodite e i tanti altri dei dell'isola, ho letto “Teofania”, di Walter Friedrich Otto. Inaspettatamente ho trovato anche chiavi di lettura degli imprevisti accadimenti, benvenuti o malvenuti. Perché “La beata lontananza degli dei non esclude ciò che per noi è molto famigliare, la loro onnispresenza”. Per chi invece fosse interessato alla plurimillenaria storia dell'isola e ai suoi straordinari tesori archeologici, fino al 9 gennaio 2022, ai Musei Reali di Torino c'è la mostra “Cipro. Crocevia delle civiltà”.
Lettera #3
In un'insolita alba grigia, comunque molto calda, sono risalito in sella per pedalare lungo le strade della meno conosciuta zona nord di Cipro, autoproclamatasi repubblica indipendente nel 1974, ma riconosciuta a tutt'oggi solo dal governo turco.
Con ormai una certa confidenza alle pratiche di frontiera, cioè carta d'identità, certificato di negatività al Covid-19 e un po' di pazienza, passo il valico grecocipriota del Ledra Palace Hotel. Entro nella “no man's land”, che qui viene chiamata “Green line” sotto il controllo della UNFICYP, la forza di pace dell'ONU. Pedalo quindi per qualche centinaio di metri, con a sinistra l'edificio diroccato e le pertinenze rinselvatichite del glorioso Ledra Palace Hotel e a destra una serie di altre costruzioni abbandonate, assediate da un impavido Terzo paesaggio. Dal 2011, in una di queste, si trova la Home for Cooperation, gestita dall'associazione per il dialogo AHDR, in cui ci si può fermare anche per un caffé o un pasto, oltre che per informarsi sulla situazione e sui progetti d’integrazione.
Attraversata anche la dogana turcocipriota, prendo la strada per Girne, l'antica Kyrenia, che dista una quarantina di chilometri in direzione nord. Appena fuori dalla città, quando l'orizzonte si amplia, riappare l'incredibilmente grande e inquietante “flag stone”, la bandiera di pietra della Repubblica Turca di Cipro del Nord, fatta in origine con pietre bianche. E' una bandiera “disegnata” sul terreno, grande come 4 campi da calcio, ben visibile anche su Google Maps. Si trova sulle pendici della catena montuosa del Pentadattilo, ai piedi del mitico Castello di Buffavento. A Cipro non solo le bandiere sono troppe, ma anche troppo grandi.
Prima tappa in terra turcocipriota, l'antico porto di Kyrenia, con il suo imponente castello, poi la vicina abbazia di Bellapais con l'omonimo paese dove costruì casa e visse dal 1953 al 1956 lo scrittore inglese Lawerence Durrell, che all'isola dedicò un bel romanzo, purtroppo fuori catalogo in Italia: “Gli amari limoni di Cipro”. Se accesa è la disputa in paese su quale sia l'originale “albero dell'ozio” raccontato da Durrell, nella piazza principale c'è un altro albero spettacolare, e metaforico. Un albero duale, frutto dell'abbraccio tra due alberi simbolo dell'isola e del Mediterraneo più in generale: il fico e il gelso.
Ridisceso sulla strada costiera, pedalo verso Kaplica con a sinistra il Mediterraneo, che qui chiamano Akdeniz e la catena montuosa di Kyrenia o Pentadactylos a destra. Sono una sessantina di chilometri che, mano a mano ci si allontana da Girne, si fanno sempre più selvaggi. La strada asfaltata costiera piega verso l'interno, attraversando le montagne che qui si abbassano, pochi chilometri a nord di Kaplica, per scendere nell'ampia pianura meridionale, la Mesaoria. Paesaggio agricolo che ricorda il Tavoliere delle Puglie, più arido e punteggiato da minareti. Quaranta chilometri facili da pedalare, per arrivare a Famagosta. Ammochostos per i greci, Gazimağusa per i turchi, un'altra città storica, con spettacolari monumenti e rovine, ma anche con inquietanti, enormi ferite. Tra cui una grande “Gost town”, una città fantasma nella città viva, il grande quartiere greco abbandonato di Varosha, Maraş per i turchi. Ad amplificare lo straniamento è la recente spettrale spettacolarizzazione. Il quartiere è infatti aperto ai turisti, almeno nelle sue strade principali sotto stretta sorveglianza militare. Ci si aggira quindi come alieni tra case, alberghi, negozi, teatri, tutti in abbandono e in rovina, da quando nel 1974 ci fu l’esodo in massa della popolazione greca, messa in fuga dai militari turchi e dalle milizie turcocipriote. Consapevoli o inconsapevoli, inquieti o spensierati, si è protagonisti di un racconto distopico alla Cormac McCarthy.
Fabio Fiori
PS
Alla “Green line” è dedicata una sezione di Google Arts & Culture, dove si può esplorare la zona, oltre che per immagini, attraverso brevi testi. Per chi invece voglia conoscere la vita notturna e più in generale quella culturale della Lefkosia grecocipriota ci sono delle carte, disponibili anche online . Infine per entrare nelle antiche atmosfere del mondo greco, ad ogni latitudine e in modo particolare a Cipro, indispensabili sono i libri di Konstantinos Kavafis, che sull’isola non c’è mai stato ma che conosceva perfettamente le ombre di dei e uomini, che la abitavano e la abitano.
Lettera #4
“Vieni, Desdemona, ancora una volta / Benvenuta a Cipro!”. È Otello che parla, nell'Atto Secondo dell'omonina tragedia di Shakespeare, scritta nei primi anni del 1600, quando ancora le terribili cronache della presa ottomana di Cipro erano vivissime. Pagine che sono andato a rileggere all'alba sulle antiche mura di Famagosta, l'odierna Gazimağusa, prima di rimettermi in sella per riattraversare le frontiere e ritornare nella Cipro greca. Servirebbe forse proprio l'acume di Shakespeare, la sua straordinaria capacità di disvelare realtà nascoste, di aggredire stereotipi fuorvianti, per raccontare anche la storia recente dell'isola. Una vicenda terribile e complicata, dove verità e menzogne si mescolano continuamente, dove credo sia necessario diffidare di chi ha certezze, qui forse più che altrove. Perché Cipro è da sempre un crocevia, un luogo strategico, un'isola che ammalia e che scatena sentimenti pericolosi.
“Quando non c'è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza. Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali. Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua offesa. Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma chi piange per un dolore vano, ruba qualcosa a se stesso”. Così dice il Doge di Venezia, nella prima scena del dramma shakespeariano. Parole riprese da Pier Paolo Pasolini e cantate da Domenico Modugno in “Cosa sono le nuvole”. Ed è ascoltando e riascoltando questa canzone che pedalo nel tardo pomeriggio lungo la desolata strada Vahit Güner Caddesi, che costeggia la spettrale recinzione est di Varosha, in direzione del posto di frontiera di Deryneia, a soli 6 chilometri dal centro di Gazimağusa.
Arrivo al tramonto, dopo altri 8 chilometri, ad Ayia Napa, una delle più caotiche e modaiole località balneari di Cipro. Qui suv e quad intasano il lungomare, mare per altro reso invisibile da alberghi, residence e mille altre costruzioni ad uso vacanziero. Scappo all'alba in direzione est verso Larnaka, che prende il nome dalle sue antiche tombe e urne, the larnas, scrive Colin Thurbon, infaticabile camminatore e narratore inglese che nella primavera e nell'estate del 1972 percorse in lungo e in largo l'isola a piedi, raccontandola poi in Journey into Cyprus, purtroppo mai tradotto in italiano. Larnaka, come tutte le altre città cipriote, è un intricato coacervo di antichità e modernità, di cripte medievali, edilizia anni Settanta e grattacieli futuribili. Dopo settanta chilometri in direzione ovest, un lungocosta abbastanza trafficato, c'è la più grande Limassol, per dimensione la seconda città dell'isola, dopo la capitale Lefkosia.
Tappa meditativa e poetica sulle rovine dell'antichissima città dei re: Amathus. Secondo la leggenda fondata dal re Cinyras e scavata alla fine dell'Ottocento da un incredibile personaggio italiano: Luigi Palma di Cesnola. Di famiglia nobile, nato nel 1832 a Rivarolo Canavese, vicino a Torino, combatté per l'indipendenza italiana e la secessione americana. Divenne cittadino americano, poi console a Cipro e qui promosse anche importanti campagne di scavo, prima di diventare il primo direttore del Metropolitan di New York. Lì è conservato lo straordinario Amathus sarcophagus, che è decorato in maniera elegantissima con carri e processioni trionfali, figure simboliche religiose di Bes e di Afrodite-Astarte, risalenti al V secolo a. C.. Limassol è porto di mare, nell'accezione più generale, crocevia di genti ed economie d'ogni dove. Città di frontiera anche, perché limitrofa al territorio inglese di Akrothiri che insieme a Dhekelia sono le due basi militari appartenenti British Overseas Territory. Nessuna frontiera da superare, ma Union Jack, telecamere, ordine e asfaltature perfette, degne della miglior tradizione britannica.
Poi il percorso piega verso il mare e mi trovo inaspettatamente intrappolato sulla strada statale B6 chiusa per frana! Decido di verificare direttamente l'impossibilità di attraversare, anche con bici in spalla, anziché dover ritornare indietro, in salita!, e allungare il percorso di più di 30 km. Strada sbarrata, cantiere chiuso, barriera con jersey in cemento e alta inferriata. Non mi scoraggio, scendo dalla bici e m'arrampico per verificare la situazione. Si passa!… facendo scavalcare prima le borse e poi la bici. I restanti venticinque chilometri per arrivare a Paphos sono una piacevole pedalata, con una prima tappa alla Pietra d'Afrodite e nuotata celebrativa nelle acque cristalline che la circondano. Seconda tappa al Santuario di Afrodite, per godere di ombre antiche, propizie alla lettura delle ultime pagine della raccolta poetica di Konstantinos Kavafis. “Non muoiono gli dei. Muore la fede / della moltitudine ingrata dei mortali. / … / Negli dei, come in noi, fioriscono ricordi, / e i palpiti dei loro primi amori”.
Fabio Fiori
PS
Per entrare magicamente nelle atmosfere seicentesche di Cipro si può vedere o rivedere, nella versione da poco restaurata, il capolavoro di Orson Welles, Otello (The Tragedy of Othello: The Moor of Venice), Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1952. Di tutt'altro genere, onirico e poetico, ma sempre legato all'Otello è Che cosa sono le nuvole? un episodio diretto da Pier Paolo Pasolini del film Capriccio all'italiana (1968), con un commovente Totò nella parte di Iago, la sua ultima magistrale recitazione. Un tragico racconto poetico, scritto in una Cipro dilaniata dalla guerra d'indipendenza dall'Impero Britannico, è quello composto dal greco Giòrgos Sefèris, Premio Nobel nel 1963: Giornale di bordo III, pubblicato nel 1955.